Derrida: uscita di scena con sorriso

«La morte dichiara la fine del mondo nella sua totalità unica, insostituibile, infinita»

di Roberta Paolini



«Sorridetemi come io vi avrei sorriso fino alla fine. Preferite sempre la vita e affermate senza posa la sopravvivenza». Poche asciutte frasi compongono il congedo che Jacques Derrida ha dedicato agli amici. Parole lette alla sua orazione funebre, il 12 ottobre 2004. Questa è l’ultimo soffio della sublime mente di uno dei filosofi più grandi che il nostro secolo ha conosciuto. Ma non è tutto. Prima di andarsene Derrida ha lasciato un altro omaggio agli uomini di pensiero. Egli che riteneva la scrittura come una deriva, isolata e orfana dell’originaria intuizione creatrice della coscienza, disseminata nel tempo e nello spazio. Proprio il padre del decostruzionismo, che parla dell’impossibilità di riappropriarsi dell’intenzione che ha originato il testo, che invece vive indipendente dal suo autore, ha voluto lasciare un’ultima opera in cui parla della morte. Celebrazione della fine  Chaque fois unique, la fin du monde, (la prima edizione appare negli Stati Uniti con il titolo The Work of Mourning, Il lavoro del lutto) tradotto in italiano per i tipi di Jaca Book, Ogni volta unica la fine del mondo, è la raccolta di tutti gli scritti in commemorazione degli amici scomparsi. Uomini illustri, intelligenze straordinarie che hanno costellato la sua vita. Scrittori, filosofi, professori che ha incontrato, letto, discusso, con i quali si è confrontato, anche violentemente, a volte fino alla rottura. Come Michel Foucault con il quale ruppe un sodalizio intellettuale per le aspre critiche indirizzate a Folie et Déraison. Histoire de la folie a l’age classique. «Trent’anni fa il grande libro di Foucault», scrive, «fu un avvenimento di cui non tento nemmeno di identificare l’eco che ebbe dentro di me» E aggiunge: «Ciò che ha appannato l’amicizia non fu estraneo a questo libro». Un’ombra che li allontanò, che li rese per dieci anni «reciprocamente invisibili e distanti » sino al 1982 quando «tornai da una prigione ceca». Sopravvissuto, scandaglia il suo dolore e nel lutto riprende l’impossibile dialogo con l’amico, interrotto prima da idiosincrasie ed ora da un’assenza irreversibile: la morte. Ritorna con la memoria alla discussione, con un’interrogazione orbata di qualsiasi risposta, tagliente come l’aporia della vita e della morte. Vulnerato dall’insanabile necessità che «non si può perseguire una tempestosa discussione dopo la morte  dell’altro». È questo assurdo che strappa il cuore di Derrida, conscio che se «quel libro è stato possibile e conserva a tutt’oggi un valore monumentale esso deve dirci, insegnarci o domandarci». Una domanda “orfana” divarica l’animo del postulante, imponendo la certezza di non ottenere alcuna risposta. Solo di cercare «nella solitudine dell’interrogare, di immaginare il principio di replica, la risposta di Focault ». Non resta altro se non il silenzio nella percezione della morte, «Dove ormai nessuno può rispondermi per lui». Le pagine di Derrida debordano di un’umanità, di una commozione che stupisce se confrontata  col rigore ferreo del suo filosofare. A Jean-Marie Benoist, educatore, giornalista de Le Monde e Le Figaro, morto di cancro nel 1990 neppure cinquantenne, offre parole di una tenerezza struggente. «Avere un amico: proteggerlo. Seguirlo con gli occhi. Quando non c’è più, vederlo ancora e cercare di sapere, di ascoltarlo o di leggerlo quando si sa che non lo si vedrà più: questo è piangere». A Gilles Deleuze, filosofo insigne e meraviglioso, dona un frammento del suo animo devastato, sconvolto. Divelto dall’amico, con l’anima a brandelli: «Troppo da dire, e oggi non ne ho forza». Così spiega l’assordante, insopprimibile urlo del dolore, così forte perché rimbomba nella mente, perché è frutto di un’implosione che fa tremare le membra. «Troppo da dire su quello che è successo», ripete: «Proprio a me una morte sicuramente temuta un’immagine inimmaginabile che nell’avvenimento ancora scava ». Annientato dalla pletora di parole, di pensieri possibili «Grazie a lui pensando a lui». Reminiscenze dei suoi libri, monumenti immortali, che hanno stimolato «Non solo delle forti provocazioni a pensare » ma anche «l’esperienza sconvolgente, così sconvolgente, di una prossimità o di un’affinità quasi totale».  Un’ammissione critica, problematica per Derrida, che mai e poi mai accettò in vita alcunché, senza farlo passare attraverso le maglie ostiche del suo pensiero. «So solo che le differenze tra di noi hanno dato spazio solo all’amicizia», a quella philia di tradizione platonica in cui la domanda è origine e fine di ogni pensiero. E infine la promessa, suggello di questo saluto: «Continuerò o ricomincerò a leggere Gilles Deleuze, per imparare e dovrò camminare da solo in questa lunga conversazione che dovevamo avere insieme». Il rimpianto struggente di ciò che non è stato possibile dire, domandare, spiegare, «perché il suo pensiero non mi ha mai lasciato per quarant’anni». Come fare ora, come chiedere, «come potrebbe accadere?». Ad-Dio, Emmanuel. L’epigrafe a Emmanuel Levinas è ancora più intensa. Dire “addio” a colui che gli ha insegnato il valore autentico della parola “ad-Dio”, che gli ha rivelato come pronunciarla e pensarla. Servono «parole nude, semplici e disarmate» come il suo tormento. Una potente lacerazione, uno strappo nel quale far risuonare le parole dell’amico. «Perché il saluto dell’ad-Dio non significa la fine. L’ad- Dio saluta l’altro al di  là dell’essere». Stralci dei suoi epitaffi, dei commiati, mai stucchevoli, sempre lucidi come la sua prefazione. In cui, con la chiarezza di sempre, ancora una volta ci parla, quasi ammonendoci al pensiero, alla teoresi: «Ciò che provo alla morte di chiunque, e in forma più intensa e incomprimibile alla morte di un amico o di una persona cara è proprio che la morte dell’altro, soprattutto se lo si ama, non è l’annuncio di un’assenza o di una sparizione, la fine di questa o quella vita. La morte dichiara ogni volta la fine nel mondo nella sua totalità, la fine di tutto il mondo possibile, ed ogni volta la fine del mondo come totalità unica e quindi insostituibile e quindi infinita». Questo rende “impossibile” l’esperienza della morte. Tale è l’altezza dell’interpretazione, dell’ermeneutica di Derrida, non accademico roboante coacervo di parole vuote, ma autentico filo-sofare.